Il clima di Premana, come del resto in tutto l'arco alpino, consentiva in passato prevalentemente la coltivazione di solo due tipi di cereali: la segale e l' orzo. L'avvento della industrializzazione e i miglioramenti delle condizioni di vita della comunità hanno portato alla progressiva scomparsa delle attività rurali e inevitabilmente l'abbandono della coltivazione di questi due cereali, un tempo indispensabile per la alimentazione della popolazione. Soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, i campi coltivati a segale intorno al paese e vicino ai maggenghi, chiamati lööch, hanno lasciato il posto ai prati e alle nuove costruzioni o sono stati invasi dai boschi circostanti. La segale (secale montanum) è il cereale che meglio si adatta alle condizioni ambientali della montagna in quanto coltivabile fino a 1500 metri. Più adattabile ai climi secchi e ai terreno poveri, è capace germinare rapidamente anche a basse temperature e di restare a queste ultime per tutto il periodo vegetativo. La segale ha sempre avuto una maggiore capacità di competizione nei confronti delle specie vegetali spontanee di montagna, tale da garantire una produzione apprezzabile di granaglie e di paglia. La semente vernina, cioè invernale, che aveva una resa maggiore e dava una farina più bianca, era seminata in genere in ottobre e si mieteva a luglio-agosto. Se i germogli venivano bruciati dal gelo invernale, sopraggiunto prima che il terreno fosse coperto dalla neve, si ripiegava su una varietà primaverile che si seminava in aprile-maggio e si raccoglieva in settembre-ottobre, ma con rese più basse. In tempi remoti predominava la monocultura della segale. Sì cominciò a praticare la rotazione solo quando si diffuse la coltivazione della patata, introdotta a Premana in epoca napoleonica. Raramente nella rotazione si trasformava il campo in prato. A settembre, raccolte le patate, si predisponeva il campo per la semina dei cereali. Dopo la raccolta, in alcune zone particolarmente soleggiate, si seminavano anche le rape bianche o il grano saraceno. La preparazione del campo La preparazione del terreno ( un camp d'un stèer, cioè un campo ove si seminava uno staio di segale, circa 30 chili di cereale, era a Premana un campo molto grande) doveva essere eseguita con cura. La prima operazione era tirà la tere , cioè riportare a spalla con la gerla la terra scivolata durante l'annata precedente dal fondo alla parta alta del campo. Anche a Premana i campi erano terrazzati ma rimanevano pur sempre ripidi tanto da rendere sempre necessari questo intervento. Data la pendenza dei campi di Premana, la lavorazione avveniva a mano con l'uso della zappa, impiegata preferibilmente per i terreni ripidi, mentre la vanga era usata per i terreni più pianeggianti e morbidi, mentre il bidente era l'attrezzo ideale per l'arieggiamento del suolo senza rivoltare completamente la terra. La concimazione autunnale si effettuava con letame portato sul campo con la gerla o con la carriola e veniva sparso con la forca a tre rebbi. Se si effettuavano rotazioni alle culture si concimavano in primavera biennalmente, prima di seminare le patate. In questi casi il concime era portato sul posto preferibilmente durante l'inverno, tramite una slitta munita di cassone o di cesta intrecciata. La semina La semina avveniva a spaglio sulla terra rivolta con la certezza di non gettare il seme troppo fitto altrimenti le piante non avrebbero potuto svilupparsi bene. Alla semina seguiva l'erpicatura, con un erpice di legno trascinato da un uomo, grazie alla quale i semi venivano ricoperti da un sottile strato di terra, ma a Premana si provvedeva semplicemente con la zappatura con la sape. Allo spuntare delle prime pianticelle, con una zappetta, detta sciarscéle, si estirpavano (sciarlâ) le erbacce infestanti come la gramigna (scòrs). La mietitura Dalla fine di luglio fin verso i primi di agosto, a seconda dell'andamento climatico e della esposizione dei campi, si svolgeva la mietitura. Gli steli, che potevano raggiungere il metro e settanta di altezza, erano tagliati con la falce (séghèzze). ll lavoro era svolto dalle donne, prime che i chicchi delle spighe completamente mature potessero disperdersi sul terreno durante la mietitura. Gli steli tagliati venivano legati a formare un covone. I covoni erano portati al riparo nella parte alta del fienile (il sólâm) il cui pavimento era composto da travi ben distanziate e le pareti erano dotate di grandi finestroni a rastrelliera, le balconade (vedi il disegno di Codega Anacleto).o semplicemente aperte, il tutto per facilitare l'arieggiamento. Il trasporto dal campo al fienile si faceva a spalla, facendo attenzione a non perdere chicchi durante il tragitto. La trebbiatura Quando i covoni erano completamente essiccati si procedeva alla battitura nell' ère, l'aia, della casa rurale, per staccare i chicchi dalla spiga. Questa operazione si svolgeva possibilmente prima del secondo taglio del fieno, al quale occorreva far posto nel fienile. Inizialmente i covoni venivano sbattuti con forza contro il muro o contro un basso tavolino inclinato detto scopadòor per far cadere i chicchi più maturi, poi venivano slegati e allineati in più file sul pavimento del fienile e battuti o con due bastoncini uno per mano o con il correggiato, la verghe. Quest'ultimo era composto da un manico e da una vetta, un duro e tozzo bastone più corto (circa un terzo del manico) legato al manico con un laccio di cuoio che ne consentiva la libera rotazione. Si doveva imprimere all'arnese un movimento rotatorio e colpire con la vetta i covoni con ritmo regolare e con dei movimenti perfettamente sincronizzati con quelli dell'intero gruppo di battitori per evitare di mettere in pericolo se stessi o gli altri. Il lavoro era lungo e faticoso ma alleviato da canti e battute scherzose. I covoni dovevano essere girati, dopo la prima battitura, per consentire a tutti di ricevere le battute del correggiato e i chicchi sul pavimento raccolti e ammucchiati di volta in volta in un angolo, perché si sarebbero rovinati col procedere della battitura. Terminata questa operazione, la paglia era raccolta e legata. In seguito era utilizzata come foraggio per il bestiame giovane. In tutti i casi la paglia veniva tritata a mano con un trinciaforaggi, detto trida paie . La paglia poteva anche servire per riempire i sacconi del letto, cioè i pagliericci gli antenati degli odierni materassi. Successivamente si passava alla spulatura,cioè al distacco della pula, l'involucro che riveste il chicco, effettuata manualmente con il vaglio, il val, un cesto di vimini con due manici, munito su tre lati di sponde rialzate per raccogliere il cereale e aperto sul davanti . Questa operazione doveva essere svolta all'aperto in presenza di una corrente d'aria: occorreva afferrare con forza i due manici del vaglio appoggiandolo al basso ventre e sollevarlo rapidamente per gettare il contenuto verso l'alto e raccoglierlo durante la caduta, mentre il vento ne asportava la pula. La vagliatura meccanica avveniva invece con un vandadór (ventilabro ) i cui uso era già diffuso nell'arco alpino già all'inizio del Settecento. L'attrezzo era formato da un cassone munito internamente da una ventola azionata da una manovella. Sopra al cassone si trovavano una larga bocca, simile ad una tramoggia nella quale si versavano i chicchi. Grazie alla vibrazione trasversale di una rete metallica che si trovava all'interno,mossa dalla manovella che metteva in moto l'intero ingranaggio, veniva staccata la pula dai chicchi. La pula e le pagliuzze, investite dalla corrente d'aria create dalle pale del ventilabro venivano spinte fuori, cadendo più o meno lontano secondo il volume e il peso. I chicchi invece cadevano lungo un piccolo piano inclinato su un telo posto a terra. Sassolini e piccoli semi di altre piante erano eliminati dal ventilabro, ma l'operazione richiedeva anche ulteriori passaggi in crivelli a trama sempre più fitta e attenti interventi manuali. Infatti nella segale si potevano trovare anche numerosissimi funghi tra cui la pericolosa sclerozi della segale cornuta ( più frequente se la stagione estiva era state umida), che appariva come un corpo duro nero che si formava all'altezza delle spighe. In questo fungo si trovava un alcaloide (la dietilammide dell'acido lisergico, LSD), che produce effetti allucinogeni con danni spesso gravi per i tessuti cerebrali. Se nella farina questi funghi superavano il 5%, il pane addirittura rappresentava un pericolo per la salute. Anche le segale cornuta era certosinamente separata dal seme anche perché era venduta ai farmacisti che la impiegavano per la preparazione di prodotti medicinali. Alla fine di tutte queste operazioni si poteva stimare finalmente il raccolto, la cui resa dipendeva dalla stagione, dalla fertilità, dall'esposizione e altitudine dei campi e poteva variare da nove volte il seminato, nelle stagioni migliori, a tre nelle peggiori. A Premana pare fosse piuttosto scarsa, pari a tre volte il seminato. Il cereale dopo la mietitura, sufficientemente secco, era misurato con il penàc, corrispondente ad un mezzo staio e veniva conservato in cassoni , il bancaal, prima di essere portato al mulino. Macinazione I mulini azionati da ruote idrauliche erano numerosi anche a Premana, lungo il corso del torrente Varrone e la loro attività era incessante e interrotta soltanto dalla scarsità di acqua nei mesi invernali. L'abbandono delle colture cerealicole, alcune alluvioni disastrose e una diversa canalizzazione delle acque hanno portato al progressivo abbandono dei vecchi mulini e al loro inevitabile degrado. Nel territorio di Premana esistono ormai solo dei ruderi, a testimoniare un' epoca in cui queste antiche macchine avevano una grande importanza nella vita della comunità. L'acqua giungeva ai mulini attraverso un complesso sistema di canalizzazione e cadeva sulla grande ruota a cassetti. Il movimento rotatorio, impresso all'asse della ruota, da verticale veniva trasformato in orizzontale da un ingranaggio che, a sua volta, metteva in moto una macina in pietra che ruotava sopra una fissa. La macina mobile aveva la faccia inferiore (quella rivolta alla macina fissa) leggermente convessa, in modo tale che tra le due macine rimanesse una leggera distanza, che variava da alcuni millimetri nella parte centrale, per facilitare l'ingresso del cereale, fino a mezzo millimetro verso l'esterno. La distanza poteva essere comunque regolata per variare la grossezza della farina. I chicchi, che cadevano nel foro centrale della macina mobile, per azione della forza centrifuga, erano spinti verso l'esterno e frantumati. La macina mobile, per proteggere chi si avvicinava e impedire la fuoriuscita della farina dai bordi delle macine, era ricoperta da una cassa il legno, munita da una apertura centrale. Quest'ultima permetteva la caduta del cereale nella bocca della macina. La segale da macinare era contenuta nella tramoggia, la trémöge, un imbuto di legno a forma di tronco di piramide rovesciata, che si trovava sopra la macina.. Dalla tramoggia i chicchi venivano convogliati verso il foro della macina tramite la tafferìa, una specie di piatto mobile, collegato alla tramoggia, la cui inclinazione era regolabile e proprio questo determinava la quantità di cereale che cadeva nel foro della macina. La farina macinata, attraverso un ripido canaletto, passava nel buratto, il sedàsc che si trovava a fianco ma più in basso rispetto alle macine, e qui era setacciata. Questo attrezzo, a forma di prisma esagonale era adagiato orizzontalmente e ruotava sul proprio asse, grazie al movimento impresso da una cinghia collegata alla macina. I rivestimenti interni al buratto avevano trame diverse: finissima per la farina di prima qualità; più larga per quella di seconda qualità destinata comunque alla alimentazione umana ed eventualmente un terzo per il cruschello destinato agli animali. Terminata la macinatura, la farina veniva introdotta una sacchi di tela di lino mentre la crusca veniva messa negli stessi sacchi grezzi usati per il trasporto al mulino. Da un quintale di segale si potevano ricavare circa 40-45 Kg di farina fine di prima qualità che potevano diventare circa 65 Kg rimacinando il residuo. Il mugnaio lavorava intensamente nei mesi autunnali e veniva pagato in natura con una parte della stessa farina macinata. La farina infine, di settimana in settimana, era portata al forno. Ne esiste ancora uno in paese (vedi foto), in quella che un tempo era la Piazza del Comune. Dal forno si riportavano a casa un certo numero di pagnotte o buscéi, del peso di circa sei-sette etti, che si conservano freschi e teneri per diversi giorni.